DDUIE PARAVISE è del 1928, versi di Ciro Parente, musica di E.A. Mario.

Questa canzone è frutto della fervida fantasia di un giovane giornalista-poeta, funzionario di banca, che, con i suoi versi, aveva teorizzato l’esistenza di due Paradisi, uno in cielo, l’altro in terra, giungendo alla conclusione che per i napoletani il vero Paradiso si trova in terra e si chiama Napoli.
Aveva esagerato Ciro Parente? Forse sì, se la Chiesa ritenne blasfemi quei versi e se, nonostante l’immenso successo ottenuto dalla canzone nel giro di pochi giorni, molti parroci nelle prediche domenicali si erano scagliati contro l’autore di quei versi. E meno male che lo stesso E.A. Mario aveva provveduto a cambiare l’ultimo verso del testo, che nella stesura originale così recitava: “E n’atu Paraviso nun ce sta”, modificandolo in un più accettabile “ ’O Paraviso nuosto è chillu llà”.

Divenne famoso da un giorno all’altro Ciro Parente, che scrisse altre canzoni, tra cui vanno ricordate “Pe chi se canta?”, musicata da Salvatore Baldi e la gradevolissima “ ’A ricetta ‘e Napule”, musicata dal valente musicista M° Pasquale Frustaci, ma le vetta del suo primo successo non saranno più raggiunte.

Dopo S. Di Giacomo, E. Murolo, L. Bovio, ecco E.A. Mario a completare il quadro dei “Quattro Grandi” dell’Epoca d’oro della Canzone napoletana.

Figlio di un barbiere con attività nella vecchia Napoli, Giovanni Ermete Gaeta (questo il vero nome di E.A. Mario) imparò da ragazzino a strimpellare il mandolino nella bottega paterna. Impiegatosi più tardi alle Poste di Napoli, cominciò a scrivere i suoi primi versi all’età di vent’anni, affidandoli al Maestro Raffaello Segré che si era recato nell’ufficio postale per spedire un vaglia, pregandolo di musicarglieli. Nacque così “Cara mammà”, una canzone diventata celebre nel giro di pochi giorni. Siamo nel 1904.
Inebriato dall’inatteso successo il giovane impiegato-poeta volle trovarsi un nome d’arte. Dal suo secondo nome Ermete venne fuori la E., dal nome del direttore del quotidiano di Genova “Il Lavoro”, Alessandro Sacheri, col quale collaborava, prese la A. e dal nome di Mario Rapisardi, personaggio mazziniano di cui era grande stimatore, prese Mario, nome che, secondo alcuni studiosi, potrebbe anche essere riferibile a Maria Clarvy, poetessa slava e giornalista che firmava i suoi lavori con lo pseudonimo di Mario su un giornale letterario “Il ventesimo”, al quale collaborava anche il nostro giovane Gaeta.
L’anno successivo, ancora con la musica di Raffaello Segré. G.E. Gaeta scrisse “A Margellina”; nel 1908 fu la volta di “Ammore ‘e femmena”, musicata da Evemero Nardella. Seguì nel 1910 “Amore guaglione”, musicata da Vincenzo Ricciardi.
Dal 1911 in poi E.A. Mario divenne musicista dei suoi stessi versi, merito, come egli stesso raccontava, di quel mandolino che aveva imparato a suonare “nella bottega di papà”.
Va subito detto che E.A. Mario scrisse e musicò oltre duemila canzoni, alternandole ad una vasta attività giornalistica, teatrale e di erudito, frutto di una cultura che gli veniva da approfonditi studi giovanili autodidattici.

Della sua sterminata produzione vanno ricordate:

  • “Comme se canta a Napule”,

  • “Funtana all’ombra”,

  • “Maggio si’ tu”,

  • “Io, na chitarra e ‘a luna”,

  • “Buongiorno a Maria”,

  • “Napule mio”,

  • la celebre “Santa Lucia luntana”, canzone con la quale, da attento osservatore, colse e sottolineò il triste fenomeno dell’esodo dei nostri emigranti nell’immediato primo dopoguerra,

  • “Canzone appassionata” e

  • “Presentimento”.

  • Su versi di E. Murolo musicò “Tammurriata all’antica”,

  • su versi di S. Di Giacomo, "Mierolo affurtunato", una sorta di "Passero solitario",

  • su versi di Alfredo Melina musicò "Core furastiero",

  • su versi di Gigi Pisano "Primma, siconda e terza",

  • scrisse i versi di "Napule è 'na canzone" musicata da Alberto De Cristofaro.

  • Nel 1944 E. A. Mario, su versi del consuocero Eduardo Nicolardi, musicò la famosissima "Tammuriata nera" (...E' nato nu criaturo niro niro...), in cui Nicolardi con garbato, intelligente ed arguto umorismo tratta un tema delicato e scabroso quale quello dei bimbi neri nati da giovani donne napoletane, che si erano accompagnate a soldati di colore angloamericani della Quinta Armata alleata sbarcata a Napoli sbarcata a Napoli agli ordini del generale Clark.

Fra le "Canzoni di giacca" più famose scritte da E. A. Mario vanno ricordate:

  • "Cinematografo", di cui firmò solo i versi, ricorrendo addirittura ad un altro pseudonimo: A. Silla; la musica è di Raffaele Prisco, collaboratore di E. A. Mario;

  • "Canzone 'mbriaca", su versi del grande S. Di Giacomo;

  • " 'O festino" e " 'A legge", entrambe su versi di Pacifico Vento, lo stesso poeta autore dei versi della celebre "Torna"; dalla canzone " 'A legge" fu tratta una sceneggiata che all'epoca riscosse notevole successo di pubblico e di critica.

Riguardevole e di grande successo fu anche la produzione in lingua del nostro E. A. Mario. Ricordiamo la famosissima

  • "Balocchi e profumi",

  • "Ladra",

  • "Vipera",

  • "Le rose rosse": queste ultime due, tipiche canzoni da "Café chantant", fecero la fortuna di Anna Fougez (nome d'arte di Anna Pappalardo), la bellissima "chanteuse" (sciantosa per i napoletani) del varietà che dominò letteralmente le scene in Italia e all'estero a cavallo delle due guerre mondiali.

Allo scoppio della grande guerra E. A. Mario fu trasferito in un ufficio postale di Bergamo. Fu allora che il Nostro compose

  • "Canzone di trincea" e per diffonderla, dopo averla fatta stampare a sue spese in migliaia di copie, spesso raggiungeva le prime linee e la insegnava ai soldati.

  • Nella notte del 23 giugno del 1918 nacque "La leggenda del Piave", che oltre ad assurgere all'epoca quasi ad inno nazionale, dopo poche settimane divenne popolare anche sulle linee del fronte, suscitando uno straordinario effetto psicologico nei nostri soldati e commuovendo, alla fine, tutti gli italiani.

Nel 1946 E. A. Mario musicò la sua ultima canzone " 'O vascio", su versi di Mario Giuseppe Cardarola. Fu una malattia a fargli prendere la decisione di lasciare ogni attività pubblica.
Nel giugno 1961 si spense "Il figlio del barbiere", per il quale Napoli aveva coniato un altro appellativo, definendolo "Il Signor Tutto della Canzone napoletana" quando, prima della grande guerra, volendo essere indipendente dagli editori, aveva fondato una propria casa editrice chiamandola, manco a dirlo, E. A. Mario.

Con E. A. Mario, ultimo grande esponente di un periodo aureo e fecondo ha termine quella che è stata definita "L'epoca d'oro della Canzone napoletana"
Dal 1930 in poi la canzone napoletana subisce un lento, inesorabile ed inarrestabile declino, pur registrandosi di tanto in tanto qualche isolato successo, come " 'Na sera 'e maggio" di Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi del 1938 e "Munasterio 'e Santa Chiara" di Michele Galdieri ed Alberto Barberis del 1945.
Vari motivi concorsero a determinare questa fase di decadenza della Canzone napoletana, primo fra tutti la graduale scomparsa dei grandi poeti ai quali si sostituirono i parolieri ed i verseggiatori, che, pur apprezzabili per la loro produzione canzonettistica, mai raggiungeranno le vette e la purezza della poesia di chi li aveva preceduti.
Altro fattore non trascurabile è il fiorire di nuove forme e tendenze musicali; la canzone napoletana è assediata da mille mode, italiane e straniere, fino alla contaminazione dei nuovi ritmi d'oltre oceano portati a Napoli dai soldati alleati angloamericani durante la seconda guerra mondiale.
In questa pur mutata e tormentata atmosfera musicale, a Napoli, ovviamente, si continuava a scrivere canzoni.
L'Italia, e in particolar modo Napoli, che aveva subito ben 144 bombardamenti, si leccavano le ferite inferte dalla guerra: lutti, distruzioni, miseria!
In questo quadro desolante venne fuori la fervida fantasia dei napoletani, che inventarono mille mestieri per sopravvivere, come quello, ad esempio, dei suonatori ambulanti, che vide, a volte, anche intere famiglie portarsi nelle piazze dei paesini dell'entroterra campano e cantare canzoni napoletane accompagnandosi, nei casi più disperati, anche con un solo malridotto strumento a corde, chitarra, mandolino o violino che fosse, nella intima e viva speranza che il buon cuore dei passanti offrisse qualche lira che consentisse loro di sbarcare il lunario.

La prossima canzone della mia Antologia tratta proprio questo fenomeno: " 'O viulino".